venerdì 7 marzo 2008

Ognuno seduto sotto una stella differente

Erano passati due mesi da quando Jonathan l'aveva portata lí per la prima volta. Lui adesso era sparito. Da circa un mese Jasmina non lo vedeva piú. Intanto lei si era ritagliata il suo spazio, lí nella Tres Mil. Dopo la notte dell'incidente passó una settimana senza voler uscire dal suo nuovo quartiere. Poi la paura passó e tornó spesso in cittá. La sua casa, invece, era ormai la Tres Mil. Lí aveva giá molti amici, dormiva in una vecchia casa occupata insieme ad altre 7-8 persone, il numero era variabile. Cercó un lavoro, non lo trovó. Certo, non ispirava molta fiducia. Senza un soldo, una casa degna di questo nome, senza niente da fare tutto il santo giorno, si stava lasciando andare poco a poco. Di giorno dormiva fino a tardi e quando si svegliava passava le sue ore scherzando e chiacchierando con i compagni. Un litro di Cruzcampo aperto con l'accendino, un porrito de buen hascis, la gonna tirata sulle ginocchia e il culo sul cemento. Jasmina passava cosí tutti i suoi pomeriggi, le sue sere e le sue notti. Quando se ne andava il sole, il buon Lorenzo, qualcuno prendeva un bidone, lo riempiva con legni e cartacce e gli dava fuoco. A volte non c'erano legni e bisognava bruciare porcherie; copertoni, gomma, plasticaccia. Puzzavano da morire, ma scaldavano stupendamente. Quando faceva freddo Jasmina si avvicinava a qualcuno dei suoi compagni, per compartire una coperta, e spesso finivano per scaldarsi insieme dentro a qualche auto abbandonata. Un polvo, piú lungo possibile, che scaldasse bene e possibilmente che rendesse divertente la notte; poi ognuno si rivestiva e si tornava intorno al fuoco. Un porrito per scaldare i polmoni e un sorso di Cruzcampo a calmare la gola. Jasmina stava stupendamente. Non aveva niente, ma nemmeno lo desiderava. Avrebbe voluto un lavoro, questo sí, per poter spedire soldi a casa, o magari aggiustare la porta della casa, qualche tubatura, il water. Piccoli lavoretti qua e lá, tanto per non essere costretta a vivere come in una tana. Ma quel ritmo la stava stroncando. Sempre sporca, con i soliti vestiti di quando arrivó. Mangiava male e sulle porcherie che ingurgitava versava litri di birra. Povero fegato. L'hascis, poi, faceva il resto. Gli aveva scavato due fosse sotto gli occhi e glieli aveva iniettati di sangue. Difficile trovare lavoro con queste credenziali e un nome rumeno. Era frustante. O almeno lo era le prime settimane. Poi la sua stessa vita la ammalió e lei si lasció trasportare. Era un periodo felice. Nelle sue notti non c'era stata tanta magia quizá da quando era una bambina. Tutti cantavano, di notte. Con il flamenco dei gitani riscoprí la vitalitá dei suoi padri. Ogni notte imparava una nuova canzone e i balli della sua nuova gente la esaltavano. Senegalesi e marocchini picchiavano le pelli delle loro percussioni con i loro grandi sorrisi bianchi, i russi e i polacchi si davano alla pazza gioia con le loro danze stravaganti e la loro vodka rallegrava tutti i musicanti. Ognuno seduto sotto una stella differente. E di giorno, ognuno nella propria tana, ripondendo forze in attesa della notte.

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venerdì 8 febbraio 2008

Il sacro gong

Stava per iniziare. Il tanto desiderato suo primo incontro stava per prendere forma. E sinceramente non gli importava tanto come sarebbe andata, se gli avessero o meno spaccato la faccia... Piuttosto voleva valutare come sarebbe andato lui lì sopra. Non lo sapeva nemmeno come mai fin da piccolo si era infilato in quella palestra e aveva iniziato a tirare pugni contro quel sacco. Ma questo poco importava, perchè alla fine quello che aveva sempre desiderato era materializzato lì, quella sera. Era seduto su quel panchetto minuscolo e poco importava di come ci era arrivato. Concentrazione. Non distingueva la folla già nel buio della sala, nè faceva caso alle urla o alle incitazioni. Pensava solo a sè, al suo ego enorme. Enorme come i suoi muscoli; erano un ammasso di carne in tensione dal primo all'ultimo: la folta schiera di addominali era come una corazza che lo avrebbe protetto, i polpacci erano pronti per entrare in trazione durante il balletto sul ring. Quello su cui però contava di più era il suo bicipite destro che avrebbe sparato colpi micidali come un panzer in guerra. Le goccie di sudore gli scendevano giù dalla testa per la tensione che era ormai giunta alle stelle. Ed era questo che nel cervello si ripeteva costantamente anche durante ogni allenamento: "la tensione è la scorza del puglie, perchè riesce a animarlo quando è morto e ad energizzarlo quando è vivo. E' lei che affronta il pericolo, ma non la far trasformare in paura, perchè un puglile con la paura è come uno senza le braccia". Respiro. La cosa che più di tutte gli era rimasta impressa dagli insegnamenti del suo manager era la raccomandazione di sentire la simbiosi perfetta tra la voglia di esplodere che risideva nel cervello e lo scatto istantaneo del braccio, come un flash durante una fotografia. E per far ciò si doveva aiutare con la sua respirazione, senza mai andare fuori giri come un macchian ben progettata. In effetti lui era una macchina, ma progettata per demolire. La concentrazione era all'apice e il respiro bello profondo; la sua testa, invece, stava quasi per implodere; sapeva che tra pochi minuti non avrebbe più sentito niente: niente più rumori, niente più scrupoli, niente più dolore, solo adrenalina e sapore del sangue. Sì, adrenalina e sapore del sangue . Si ripeteva che avrebbe sentito solo adrenalina e sapore del sangue. Fu l'ultima volta che si sussurò questo, quando l'alone attorno alla sua testa, che gli allenatori chiamano concentrazione, fu squarciato dal sacro gong.

domenica 27 gennaio 2008

Alluminio Anodizzato (4)

Nausea. Si sentiva mancare il fiato. Appena sopra il treno, non potè far a meno di venir stordito dal fetore di quell'umanità stipata come bestiame. Anche quella mattina era costretto ad affrontare il viaggio in piedi. Come se non bastasse una temperatura tropicale non faceva che accrescere il disagio. Odiava l'ora dei pendolari. Odiava quei treni unti e usurati. Impossibile muoversi. Non aveva scelta, doveva godersi la compagnia di quella cariatide dai capelli bianchi e radi che gli era di fronte. Samuele trovava repellente sopra misura quella donna anziana, che in altre circostanze avrebbe suscitato in lui compassione. S'infilò le cuffie del suo riproduttore Mp3 e chiuse gli occhi cercando di evadere. Così, in apnea giunse alla stazione centrale. La mandria scese dal treno, fiacca e intorpidita.
Freddo, freddo, di nuovo dannatamente freddo. In mezzo a quell'ordinato caos Samu stava già imprencando al pensiero di salire su quel fottuto autobus. Prima però fece sosta dal tabaccaio. - Un pacchetto di Camel Light. Grazie - Tutte le volte che ringraziava il negoziante gli capitava di riflettere sull'assurdità di quelle parole. Non che quel vizio maledetto fosse colpa del tabaccaio, tuttavia trovava paradossale rigraziare il venditore del veleno che l'avrebbe ucciso.
Di nuovo in attesa. Questa volta sulla banchina fuori dalla stazione, ma almeno poteva fumare. Erano ormai le nove, quando riconobbe Vincenzo. "Porca puttana! Anche questo ci mancava." pensò Samuele. Non aveva nessuna voglia di conversare quella mattina, tantomeno con lui - Anche tu in ritardo? - esordì goliardico il collega. - Ce la prendiamo con calma, eh... - Samu era fottuto, in trappola. Avrebbe voluto sparire, non si sentiva in grado di poter sostenere l'allegria di Vincenzo neanche per un minuto. Ma ormai non poteva che soccombere a quella mitragliatrice dall'accento calabrese. E così passò più di mezzora sforzandosi di essere il più compiacente possibile. Annuiva, sorrideva. Una fatica immane. Odiava quel tipo di persone la cui prerogativa principale sembrava riuscire a cesellare il nulla. Niente carattere, niente spirito, niente emozioni. Aria fritta. Parla, parla e non comunica nulla. La sua fortuna è che non riesce ad ascoltarsi, pensava Samuele. Finalmente le porte del Bus si aprirono proprio di fronte all'ingresso della facoltà. Era arrivato.

sabato 22 dicembre 2007

Alluminio Anodizzato (3)

Un colpo secco. Passarono sette minuti e un secondo colpo la zittì nuovamente. Altri sette minuti e la radiosveglia ricominciò a cantare per la terza volta. Diamine, si doveva alzare. La spense. Le 7.53. Quella orrenda melodia anni '80 lo avrebbe tormentato almeno fino all'ora di pranzo. Samuele si appiccicò addosso la prima roba che gli capitò tra le mani e scese. In cucina afferrò un cornetto. Lo stesso sapore del cartone, pensò. Non aveva fame, ma l'abitudine lo spingeva ad ingozzarsi frettolosamente prima di correre al treno. Il caffè era tiepido, sicuramente il padre se n'era andato da poco. Aveva lasciato un biglietto: "Non torno per cena, dormo fuori. Chiama solo se necessario". Rimarrà a scopare dalla Teresa, pensò con un misto di rabbia e intolleranza. Infondo il ragazzo non aveva superato del tutto la fuga della madre. Sebbene non nascondesse il disprezzo che provava per lei, nel profondo del suo cuore dava il grosso della colpa al padre. Vivere con Franco non era facile, o meglio lo era fin troppo: era come stare da soli senza il problema delle bollette. Cappellino, sciarpa, guanti, chiavi, telefono, uscì. Alla stazione il solito ritardo. Dannato freddo. Un pallido lontanissimo sole cercava di scaldare inutilmente quell'aria pungente. Si mise a sedere in attesa del treno. Sebbene le panchine di ferro della stazione fossero marmate, il sonno aveva priorità. Quella mattina c'era il consueto "freddo fumo", era così che Samu amava definire il freddo che condensa il respirio. Una sigaretta, non desiderava altro che una sigaretta per fumarsi quei minuti d'attesa, ma sarebbe stato necessario attendere anche per quello. Certamente una volta a Firenze avrebbe puntato dritto verso il primo tabaccaio. Arrivò il treno e salì.

lunedì 17 dicembre 2007

Odore di malto bruciato, a increspare i pensieri

In piedi davanti al falò la sigaretta continuava a consumarsi lentamente. Il poco vento che alitava su Siviglia bastava a rubare al tabacco il suo soffio vitale, mischiandolo all'odore acre del malto bruciato che quella notte riempiva le strade della Tres mil. La nebbia, intorno al fuoco, si estendeva per chissà quanti isolati, ma lì in quel punto l'aria era nitida e Jasmina poteva vedere perfettamente la sigaretta, rivolta al cielo, che si suicidava. Era come se l'asfalto se la stesse fumando lentamente. La cenere intanto non cadeva. Il vento, quella notte, sopiva respirando con discrezione. Jasmina sbuffò. "Che gioco stupido!" disse rivolta all'altro lato del falò. "Io ci credo" rispose stizzito dall'altra parte del fuoco il suo interlocutore.

L'aveva conosciuto qualche ora prima, in strada. Si chiamava Jonathan ed aveva 13 anni. Era stato lui ad alzarla da terra e a portarla lontano dal marciapiedi del bar dopo che un gruppo di giovani sivigliani l'avevano malmenata. Era la sua ennesima lunga notte in una città che giorno dopo giorno le dava una nuova batosta. Non si era ancora ripresa dall'intontimento di due giorni prima, di quando si svegliò in riva al Guadalquivir con il naso inncrostato di sangue e i vestiti imbrattati di fango. Ma i guai non portano pazienza, soprattutto quando raggiungono una giovane slava nelle assolate strade notturne d'Europa. Zingara, lesbica e puttana. Era a Siviglia da due giorni e già aveva conquistato la sua, er nulla nuova, identità. Stavolta i guai erano venuti a cercarla alle 4 del mattino sul marciapiedi del Bar Trinidad, sulla Ronda historica della capitale. Chi conosce Siviglia dirà che se li era cercati. I ragazzi che l'avevano picchiata erano dei canis appena cresciuti e passati al mondo dei grandi, quello in cui per tirare il grammo non si può più rubare, sennò ti mettono dentro. I canis erano baby-gang che all'inizio del nuovo secolo imperversavano impunemente per tutta la città come cavallette pazze, in cerca di alcol, droga e divertimento sintetico. Il tutto gratis, pagando chi non riconoscesse la loro autorità con coltelli, bottiglie rotte e aggressioni collettive in stile piragna.
Quelli che avevano colpito Jasmina lo erano sicuramente stati fino a qualche mese prima. Ne avevano tutto l'aspetto. Avevano sotituito il motorino con un Audi e la cocaina se la procuravano lavorando. Erano cresciuti e sapevano che dopo i 18 si può andare in galera. Tuttavia ogni tanto di permettevano ancora qualche lusso. Una rissa, il lancio di qualche bicchiere, il coltello nascosto nello stivale, forse sapendo che l'avvocato del papà giudice al Juzgado de Sevilla o della mamma medico primario all'ospedale Virgen de la Macarena, li avrebbero tirati fuori dai guai. Ormai canis non erano più soltanto i ragazzacci del quartiere Est, la moda corre veloce in ogni campo. Questi tipacci forzuti e imbastiti di cocaina come civette imbalsamate avevano preso di mira un vagabondo di una settantina d'anni che ogni notte si inchiodava alla porta del bar, speranzoso nella bontà d'animo del barista che di tanto in tanto gli allungava una birra. L'avevano stuzzicato a lungo, poi, quando questi iniziava a mostrare paura, l'avevano spinto a terra, tra i tavolini e le sedie del bar, che a quell'ora era popolato di gentaglia di ogni specie chiamata all'adunata dal brontolio dello stomaco infastidito dall'alcol del venerdì notte. Poi gli avevano impedito di alzarsi, ricoprendolo di una gragnuola di colpi e tirandogli portatovaglioli, sedie e tutto quello che passava loro per le mani. I clienti del bar, intanto, erano accorsi fuori a godersi la scena. Jasmina fu l'unica a pararsi davanti a quei giovani per proteggere l'uomo, e così facendo si attirò le ire dei cinque bisonti. Lasciarono perdere l'uomo e vomitarono tutta la loro stupidità su Jamsina. Era quello che cercavano, in fondo. Un pretesto per picchiare qualcuno che sapesse difendersi. Jasmina era una ragazza di vent'anni, straniera e sola. Per questi valenti guerrieri urbani era più che sufficiente. La colpirono ripetutamente in cinque con calci e pugni, e quando accennò alla fuga la rincorsero senza sforzo con bicchieri, sedie e bottiglie rotte. Seppe difendersi, ma finì ugualmente male. La colpivano con la lingua rivoltata e gli occhi iniettati di sangue. Sudavano ignoranza. Lasciavano scorrere dalle loro mani la violenza come se la avessero tenuta nascosta per anni. Erano gorilla che avevano appena visto la morte della loro madre, lupi affamati che finalmente avevano trovato la carcassa di un cervo. A Jasmina ognni colpo distruggeva il cuore. Non capiva il perchè di tanta violenza, dette qualche calcio in aria, colpì con un pugno uno di loro, riuscì a uscire dalla cerchia di botte e attraversò la strada senza guardare. Un'ambulanza che veniva a forte velocità la vide all'ultimo momento e riuscì per poco a scansarla. Loro intanto stavano tornando. Erano tornati al bar furiosi, ma ridendo per il gran divertimento che le botte gli stavano procurando. Adrenalina, alcol, noia e cocaina. Erano pronti per qualsiasi cosa. Jasmina si era accasciata, senza forze, solo con la speranza di non vederli attraversare la strada. Li vide apparire con un tavolo sotto braccio, a modo di lancia, correre attraversando la strada. Urlavano eccitati e le loro risa si levavano verso le cime degli alberi che costeggiavano la strada. Poi una frenata e un colpo sordo. Un'auto se li era incontrati di fronte all'ultimo momento e non aveva fatto in tempo a fermarsi. Jasmina non aspettò di sapere cosa si fossero fatti. Approfittò del momento e della confusione che si era creata intorno all'automobile per filarsela. Qualcuno si era fatto molto male e lei, senza volerlo, c'era dentro. Corse come poteva fino a dove arrivò, poi si lasciò cadere e stremata, si addormentò. A svegliarla poco dopo fu un ragazzo gitano, che le diede un sorso d'acqua e la alzò da terra. "Vieni con me, qui non sei al sicuro" le disse. Era Jonathan, aveva visto la scena e l'aveva seguita per aiutarla. La prese sotto braccio e iniziarono a camminare. Jasmina non parlava. Camminava a stento e ogni respiro le graffiava i polmoni. Quartiere dopo quartiere arrivarono al loro sconosciuto destino. "Qui è dove vivo io" le disse il ragazzo, con un sospiro stanco "Mi dispiace ma non ho una casa dove farti riposare. Molti qui vivono come me, nel barrio. Senza tetto ma non senza casa. Qui non c'è bisogno di una casa, il barrio intero è la nostra casa. C'è sempre un posto dove accendere un fuoco e dormire, e la compagnia non manca mai. I sivigliani la chiamano la Tres mil vivienda, perchè per loro non è nient'altro che questo: un ghetto di tremila case dove rinchiudere i gitani come me, figli di quelli che cacciarono dalla parte visibile della città. In realtà si chiama Poligono Sur e per me è molto più di un agglomerato di abitazioni". Jonathan parlava a Jasmina come se la conoscesse da anni e intanto accatastava robaccia per accendere un falò: legna, cartoni, la ruota di un motorino, ogni cosa andava bene per riscaldare quella notte, umida come il fango che imbrattava l'asfalto.
Aveva 13 anni e viveva solo, nella Tres mil. Jonathan accese il fuoco e si sedettero a terra. Poco a poco Jasmina recuperò le forze. Jonathan le portò un panino al maiale e un bicchiere di whisky, pe recuperare le forze. Così, mentre si avvicinava il giorno, i lividi si addormentarono, regalando un po' di pace ai muscoli di Jasmina. Adesso erano soli, lei, Jonathan e il fuoco, immersi in un recinto di nebbia che sapeva di birra grezza. "Che puzza!" disse Jasmina. "E' la fabbrica di birra. Ogni volta che c'è nebbia ne approfittano per incrementare la produzione e liberare nell'aria più scarti di quelli che potrebbero normalmente". Era un odore acre, che si infilava sotto la lingua senza passare dal naso. Jamsina lo sentiva forte nella gola. Aveva recuperato completamente. Le rimanevano i forti dolori, ma per fortuna non aveva niente di rotto. Forse l'alcol che aveva bevuto durante tutta la notte aveva ammortizzato i colpi. Le venne voglia di fumare e chiese a Jonathan se avesse una sigaretta. Niente da fare, ma poteva procurarsela. Entrò nella nebbia e poco dopo tornò con due pacchetti di sigarette, una coperta per Jasmina e una bottiglia di birra. Iniziarono a chiacchierare ma presto si resero conto che niente di quello che stavano dicendo era interessante e allora Jonathan le propose un gioco. "Ti va di sfidare il demonio? Questo gioco si chiama 'Ammazza il Papa'. Me l'hanno insegnato dei ragazzi italiani che conobbi tre anni fa. Se accendi la sigaretta e la fumi senza lasciar cadere nemmeno un briciolo di cenere, il Papa morirà". A Jasmina parve un gioco stupido, ma l'atmosfera surreale di quel rifugio di fuoco in mezzo alla nebbia stava già evocando in lei il fascino della magia nera. Non poteva essere reale. Perchè non provare? Accesero una sigaretta ciascuno. Diedero un respiro profondo, poi aspirarono il fumo. A Jonathan la cenere cadde quasi subito. Jasmina invece resse e posò la sigaretta a terra, in piedi davanti al falò, e attese. "Perchè credi che mi abbiano aggredito così?" chiese al suo compagno di rifugio. "L'uomo è cattivo per natura. E la droga lo rende ancora più cattivo. Di qualsiasi droga si tratti, soprattutto se è di carta e ci puoi comprare quello che ti pare. Me lo diceva sempre mia nonna. Quei ragazzi non erano degli sbandati. Hai visto che macchina avevano? possono permettersi di fare quello che gli pare, tanto papà e mamma li tireranno sempre fuori. Per quelli come te e come me invece è tutta un'altra storia. Se cerchi di opporti a un'ingiustizia te ne fanno a te una ancora più grossa, che serva da esempio per tutti gli altri, che non venga loro in mente di imitarti". La cenere era arrivata al filtro, ma ancora non cadeva. Jasmina la fissava con lo sguardo perso. "Non potrò mai capire. Se questo è il mondo, che cosa mi ci hanno messo a fare?". Un soffio di vento, l'ennesima alitata di malto bruciato. La sigaretta si spense, intatta. La chiesa vicina suonò le campane, le finestre delle case si accesero. Jonathan alzò la testa e fissò Jasmina con gli occhi sbarrati. Giovanni Paolo II era morto.

mercoledì 12 dicembre 2007

Alluminio Anodizzato (2)

La ragazza era una biondina, forse ventanni, qualcosa meno, top nero, tette piccole, pancia piatta, culetto strizzato in attillatissimi jeans a vita bassa. La tipa disse - Cosa volete? - e loro - Due super medie. Grazie. - Salvo seguì avidamente l'ancheggiare della cameriera finchè questa non uscì dal suo campo visivo. Subito cominciò a fantasticare su come sarebbe stato poter vedere la fine di quel tatuaggio che ammiccava da dietro la cintura. Una risata complice unì i due amici. Com'era bello fantasticare sulle cameriere dei Pub. Conoscerle avrebbe rovinato il divertimento. Attribuirgli pensieri, sentimenti, idee avrebbe rovinato la magia che lega infermiera e paziente, cameriera e bevitore. Ormai le due medie erano a metà quando l'atmosfera si fece più distesa. Quasi due metri di paciosità, in un ragazzone di più di cento chili, barba incolta, fronte alta e testa rasata, questo era Salvo. Amava parlare delle donne, almeno quanto ne aveva paura. La conversazione, un misto di amenità volgari e acute riflessioni sull'animo umano, procedeva al solito dominata da Salvo, al quale bastava la semplice stanca attenzione dell'amico. Quante volte Samuele aveva già sentito quella montagnona lamentarsi per i casini avuti con la sgualdrinella di turno. Eppure ascoltare quelle storie non era noiso. Un altro sorso, ormai si era scaldata quella fottuta birra. Stanco. Troppo stanco per poter rispondere, troppo stanco per poter pensare, troppo stanco per ricambiare le attenzioni che gli stava dedicando lo sguardo avido di quella frangetta alle spalle di Salvo. - Che ne pensi se ci leviamo di culo? - disse interrompendo l'amico - Andiamo vai che domani ho lezione. - Salvo era ormai settimane che non andava all'università e non ci sarebbe andato nemmeno l'indomani. Il cinghialone si era trovato un lavoro come tecnico delle luci per una ditta che organizzava concerti, ed era sempre più convinto che quello fosse il suo posto nel mondo, perciò tutto il resto a puttane. Pagarono il conto e uscirono. I due si salutarono ripromettedosi di andare a far macello in centro quel fine settimana. Samuele sfilò l'ultima sigaretta dal pacchetto e la fumò durante il ritorno. Imprecava già al pensiero che l'indomani, dopo il caffè, non si sarebbe stroncato il consueto cicchino mattutino.

Alluminio Anodizzato (1)

Alla fumosa luce di quella lampadina ecologica spense con stizza l'ennesima sigaretta. Gli occhi gonfi e rossi, le tempie pulsanti. Ormai era perso il conto delle ore che aveva trascorso davanti a quel monitor. In uno stato di ipnosi apparente alternava lavoro e svago, rimanendo sempre lì seduto. Ore di silenzio e musica assordante. Fuori era buio da un pezzo, ma notte o giorno non faceva differenza, il suo sole erano quegli 11W, la sua notte era quell'interruttore. Improvvisamente sul cellulare al suo fianco cominciò a lampeggiare "Salvo", "Salvo", "Salvo". Che diamine voleva? Una rapida occhiata all'orologio nell'angolo destro dello schermo: mezzanotte passata. Il cellulare indispettito cominciò a vibrare insistentemente, arrancava verso il suo braccio. Tolse le cuffie, rispose. - Un birra? Dovrei finire... Va bene dai! Solito posto? Ci troviamo là. Ciao Sa. - Con le movenze di un pianista, rapidamente premette la combinazione di tasti che lo riportò alla realtà. Il posacenere pieno, una tazza di caffè ormai freddo, appunti, stampe, un tagliaunghie, i resti di una banana: domani avrebbe messo in ordine la scrivania, domani. Scese le scale, prese la giacca, distrattamente agguantò le chiavi, chiuse la porta. Era qualche giorno che non vedeva Salvo. Si divertiva a tirare il collo a quel rottame di macchina. Parcheggiò. Scese. Era ancora rintontito, impiegava sempre un po' prima di ricollegarsi completamente al mondo. Il suo cervello era sempre là. A breve una birra forte l'avrebbe anestetizzato e le chiacchiere di Salvo l'avrebbero distratto. Lo trovò là al tavolo, avvolto nella nebbia della saletta fumatori. Si sedette. Immediatamente giunse la cameriera.