lunedì 17 dicembre 2007

Odore di malto bruciato, a increspare i pensieri

In piedi davanti al falò la sigaretta continuava a consumarsi lentamente. Il poco vento che alitava su Siviglia bastava a rubare al tabacco il suo soffio vitale, mischiandolo all'odore acre del malto bruciato che quella notte riempiva le strade della Tres mil. La nebbia, intorno al fuoco, si estendeva per chissà quanti isolati, ma lì in quel punto l'aria era nitida e Jasmina poteva vedere perfettamente la sigaretta, rivolta al cielo, che si suicidava. Era come se l'asfalto se la stesse fumando lentamente. La cenere intanto non cadeva. Il vento, quella notte, sopiva respirando con discrezione. Jasmina sbuffò. "Che gioco stupido!" disse rivolta all'altro lato del falò. "Io ci credo" rispose stizzito dall'altra parte del fuoco il suo interlocutore.

L'aveva conosciuto qualche ora prima, in strada. Si chiamava Jonathan ed aveva 13 anni. Era stato lui ad alzarla da terra e a portarla lontano dal marciapiedi del bar dopo che un gruppo di giovani sivigliani l'avevano malmenata. Era la sua ennesima lunga notte in una città che giorno dopo giorno le dava una nuova batosta. Non si era ancora ripresa dall'intontimento di due giorni prima, di quando si svegliò in riva al Guadalquivir con il naso inncrostato di sangue e i vestiti imbrattati di fango. Ma i guai non portano pazienza, soprattutto quando raggiungono una giovane slava nelle assolate strade notturne d'Europa. Zingara, lesbica e puttana. Era a Siviglia da due giorni e già aveva conquistato la sua, er nulla nuova, identità. Stavolta i guai erano venuti a cercarla alle 4 del mattino sul marciapiedi del Bar Trinidad, sulla Ronda historica della capitale. Chi conosce Siviglia dirà che se li era cercati. I ragazzi che l'avevano picchiata erano dei canis appena cresciuti e passati al mondo dei grandi, quello in cui per tirare il grammo non si può più rubare, sennò ti mettono dentro. I canis erano baby-gang che all'inizio del nuovo secolo imperversavano impunemente per tutta la città come cavallette pazze, in cerca di alcol, droga e divertimento sintetico. Il tutto gratis, pagando chi non riconoscesse la loro autorità con coltelli, bottiglie rotte e aggressioni collettive in stile piragna.
Quelli che avevano colpito Jasmina lo erano sicuramente stati fino a qualche mese prima. Ne avevano tutto l'aspetto. Avevano sotituito il motorino con un Audi e la cocaina se la procuravano lavorando. Erano cresciuti e sapevano che dopo i 18 si può andare in galera. Tuttavia ogni tanto di permettevano ancora qualche lusso. Una rissa, il lancio di qualche bicchiere, il coltello nascosto nello stivale, forse sapendo che l'avvocato del papà giudice al Juzgado de Sevilla o della mamma medico primario all'ospedale Virgen de la Macarena, li avrebbero tirati fuori dai guai. Ormai canis non erano più soltanto i ragazzacci del quartiere Est, la moda corre veloce in ogni campo. Questi tipacci forzuti e imbastiti di cocaina come civette imbalsamate avevano preso di mira un vagabondo di una settantina d'anni che ogni notte si inchiodava alla porta del bar, speranzoso nella bontà d'animo del barista che di tanto in tanto gli allungava una birra. L'avevano stuzzicato a lungo, poi, quando questi iniziava a mostrare paura, l'avevano spinto a terra, tra i tavolini e le sedie del bar, che a quell'ora era popolato di gentaglia di ogni specie chiamata all'adunata dal brontolio dello stomaco infastidito dall'alcol del venerdì notte. Poi gli avevano impedito di alzarsi, ricoprendolo di una gragnuola di colpi e tirandogli portatovaglioli, sedie e tutto quello che passava loro per le mani. I clienti del bar, intanto, erano accorsi fuori a godersi la scena. Jasmina fu l'unica a pararsi davanti a quei giovani per proteggere l'uomo, e così facendo si attirò le ire dei cinque bisonti. Lasciarono perdere l'uomo e vomitarono tutta la loro stupidità su Jamsina. Era quello che cercavano, in fondo. Un pretesto per picchiare qualcuno che sapesse difendersi. Jasmina era una ragazza di vent'anni, straniera e sola. Per questi valenti guerrieri urbani era più che sufficiente. La colpirono ripetutamente in cinque con calci e pugni, e quando accennò alla fuga la rincorsero senza sforzo con bicchieri, sedie e bottiglie rotte. Seppe difendersi, ma finì ugualmente male. La colpivano con la lingua rivoltata e gli occhi iniettati di sangue. Sudavano ignoranza. Lasciavano scorrere dalle loro mani la violenza come se la avessero tenuta nascosta per anni. Erano gorilla che avevano appena visto la morte della loro madre, lupi affamati che finalmente avevano trovato la carcassa di un cervo. A Jasmina ognni colpo distruggeva il cuore. Non capiva il perchè di tanta violenza, dette qualche calcio in aria, colpì con un pugno uno di loro, riuscì a uscire dalla cerchia di botte e attraversò la strada senza guardare. Un'ambulanza che veniva a forte velocità la vide all'ultimo momento e riuscì per poco a scansarla. Loro intanto stavano tornando. Erano tornati al bar furiosi, ma ridendo per il gran divertimento che le botte gli stavano procurando. Adrenalina, alcol, noia e cocaina. Erano pronti per qualsiasi cosa. Jasmina si era accasciata, senza forze, solo con la speranza di non vederli attraversare la strada. Li vide apparire con un tavolo sotto braccio, a modo di lancia, correre attraversando la strada. Urlavano eccitati e le loro risa si levavano verso le cime degli alberi che costeggiavano la strada. Poi una frenata e un colpo sordo. Un'auto se li era incontrati di fronte all'ultimo momento e non aveva fatto in tempo a fermarsi. Jasmina non aspettò di sapere cosa si fossero fatti. Approfittò del momento e della confusione che si era creata intorno all'automobile per filarsela. Qualcuno si era fatto molto male e lei, senza volerlo, c'era dentro. Corse come poteva fino a dove arrivò, poi si lasciò cadere e stremata, si addormentò. A svegliarla poco dopo fu un ragazzo gitano, che le diede un sorso d'acqua e la alzò da terra. "Vieni con me, qui non sei al sicuro" le disse. Era Jonathan, aveva visto la scena e l'aveva seguita per aiutarla. La prese sotto braccio e iniziarono a camminare. Jasmina non parlava. Camminava a stento e ogni respiro le graffiava i polmoni. Quartiere dopo quartiere arrivarono al loro sconosciuto destino. "Qui è dove vivo io" le disse il ragazzo, con un sospiro stanco "Mi dispiace ma non ho una casa dove farti riposare. Molti qui vivono come me, nel barrio. Senza tetto ma non senza casa. Qui non c'è bisogno di una casa, il barrio intero è la nostra casa. C'è sempre un posto dove accendere un fuoco e dormire, e la compagnia non manca mai. I sivigliani la chiamano la Tres mil vivienda, perchè per loro non è nient'altro che questo: un ghetto di tremila case dove rinchiudere i gitani come me, figli di quelli che cacciarono dalla parte visibile della città. In realtà si chiama Poligono Sur e per me è molto più di un agglomerato di abitazioni". Jonathan parlava a Jasmina come se la conoscesse da anni e intanto accatastava robaccia per accendere un falò: legna, cartoni, la ruota di un motorino, ogni cosa andava bene per riscaldare quella notte, umida come il fango che imbrattava l'asfalto.
Aveva 13 anni e viveva solo, nella Tres mil. Jonathan accese il fuoco e si sedettero a terra. Poco a poco Jasmina recuperò le forze. Jonathan le portò un panino al maiale e un bicchiere di whisky, pe recuperare le forze. Così, mentre si avvicinava il giorno, i lividi si addormentarono, regalando un po' di pace ai muscoli di Jasmina. Adesso erano soli, lei, Jonathan e il fuoco, immersi in un recinto di nebbia che sapeva di birra grezza. "Che puzza!" disse Jasmina. "E' la fabbrica di birra. Ogni volta che c'è nebbia ne approfittano per incrementare la produzione e liberare nell'aria più scarti di quelli che potrebbero normalmente". Era un odore acre, che si infilava sotto la lingua senza passare dal naso. Jamsina lo sentiva forte nella gola. Aveva recuperato completamente. Le rimanevano i forti dolori, ma per fortuna non aveva niente di rotto. Forse l'alcol che aveva bevuto durante tutta la notte aveva ammortizzato i colpi. Le venne voglia di fumare e chiese a Jonathan se avesse una sigaretta. Niente da fare, ma poteva procurarsela. Entrò nella nebbia e poco dopo tornò con due pacchetti di sigarette, una coperta per Jasmina e una bottiglia di birra. Iniziarono a chiacchierare ma presto si resero conto che niente di quello che stavano dicendo era interessante e allora Jonathan le propose un gioco. "Ti va di sfidare il demonio? Questo gioco si chiama 'Ammazza il Papa'. Me l'hanno insegnato dei ragazzi italiani che conobbi tre anni fa. Se accendi la sigaretta e la fumi senza lasciar cadere nemmeno un briciolo di cenere, il Papa morirà". A Jasmina parve un gioco stupido, ma l'atmosfera surreale di quel rifugio di fuoco in mezzo alla nebbia stava già evocando in lei il fascino della magia nera. Non poteva essere reale. Perchè non provare? Accesero una sigaretta ciascuno. Diedero un respiro profondo, poi aspirarono il fumo. A Jonathan la cenere cadde quasi subito. Jasmina invece resse e posò la sigaretta a terra, in piedi davanti al falò, e attese. "Perchè credi che mi abbiano aggredito così?" chiese al suo compagno di rifugio. "L'uomo è cattivo per natura. E la droga lo rende ancora più cattivo. Di qualsiasi droga si tratti, soprattutto se è di carta e ci puoi comprare quello che ti pare. Me lo diceva sempre mia nonna. Quei ragazzi non erano degli sbandati. Hai visto che macchina avevano? possono permettersi di fare quello che gli pare, tanto papà e mamma li tireranno sempre fuori. Per quelli come te e come me invece è tutta un'altra storia. Se cerchi di opporti a un'ingiustizia te ne fanno a te una ancora più grossa, che serva da esempio per tutti gli altri, che non venga loro in mente di imitarti". La cenere era arrivata al filtro, ma ancora non cadeva. Jasmina la fissava con lo sguardo perso. "Non potrò mai capire. Se questo è il mondo, che cosa mi ci hanno messo a fare?". Un soffio di vento, l'ennesima alitata di malto bruciato. La sigaretta si spense, intatta. La chiesa vicina suonò le campane, le finestre delle case si accesero. Jonathan alzò la testa e fissò Jasmina con gli occhi sbarrati. Giovanni Paolo II era morto.

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