venerdì 7 marzo 2008

Ognuno seduto sotto una stella differente

Erano passati due mesi da quando Jonathan l'aveva portata lí per la prima volta. Lui adesso era sparito. Da circa un mese Jasmina non lo vedeva piú. Intanto lei si era ritagliata il suo spazio, lí nella Tres Mil. Dopo la notte dell'incidente passó una settimana senza voler uscire dal suo nuovo quartiere. Poi la paura passó e tornó spesso in cittá. La sua casa, invece, era ormai la Tres Mil. Lí aveva giá molti amici, dormiva in una vecchia casa occupata insieme ad altre 7-8 persone, il numero era variabile. Cercó un lavoro, non lo trovó. Certo, non ispirava molta fiducia. Senza un soldo, una casa degna di questo nome, senza niente da fare tutto il santo giorno, si stava lasciando andare poco a poco. Di giorno dormiva fino a tardi e quando si svegliava passava le sue ore scherzando e chiacchierando con i compagni. Un litro di Cruzcampo aperto con l'accendino, un porrito de buen hascis, la gonna tirata sulle ginocchia e il culo sul cemento. Jasmina passava cosí tutti i suoi pomeriggi, le sue sere e le sue notti. Quando se ne andava il sole, il buon Lorenzo, qualcuno prendeva un bidone, lo riempiva con legni e cartacce e gli dava fuoco. A volte non c'erano legni e bisognava bruciare porcherie; copertoni, gomma, plasticaccia. Puzzavano da morire, ma scaldavano stupendamente. Quando faceva freddo Jasmina si avvicinava a qualcuno dei suoi compagni, per compartire una coperta, e spesso finivano per scaldarsi insieme dentro a qualche auto abbandonata. Un polvo, piú lungo possibile, che scaldasse bene e possibilmente che rendesse divertente la notte; poi ognuno si rivestiva e si tornava intorno al fuoco. Un porrito per scaldare i polmoni e un sorso di Cruzcampo a calmare la gola. Jasmina stava stupendamente. Non aveva niente, ma nemmeno lo desiderava. Avrebbe voluto un lavoro, questo sí, per poter spedire soldi a casa, o magari aggiustare la porta della casa, qualche tubatura, il water. Piccoli lavoretti qua e lá, tanto per non essere costretta a vivere come in una tana. Ma quel ritmo la stava stroncando. Sempre sporca, con i soliti vestiti di quando arrivó. Mangiava male e sulle porcherie che ingurgitava versava litri di birra. Povero fegato. L'hascis, poi, faceva il resto. Gli aveva scavato due fosse sotto gli occhi e glieli aveva iniettati di sangue. Difficile trovare lavoro con queste credenziali e un nome rumeno. Era frustante. O almeno lo era le prime settimane. Poi la sua stessa vita la ammalió e lei si lasció trasportare. Era un periodo felice. Nelle sue notti non c'era stata tanta magia quizá da quando era una bambina. Tutti cantavano, di notte. Con il flamenco dei gitani riscoprí la vitalitá dei suoi padri. Ogni notte imparava una nuova canzone e i balli della sua nuova gente la esaltavano. Senegalesi e marocchini picchiavano le pelli delle loro percussioni con i loro grandi sorrisi bianchi, i russi e i polacchi si davano alla pazza gioia con le loro danze stravaganti e la loro vodka rallegrava tutti i musicanti. Ognuno seduto sotto una stella differente. E di giorno, ognuno nella propria tana, ripondendo forze in attesa della notte.

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venerdì 8 febbraio 2008

Il sacro gong

Stava per iniziare. Il tanto desiderato suo primo incontro stava per prendere forma. E sinceramente non gli importava tanto come sarebbe andata, se gli avessero o meno spaccato la faccia... Piuttosto voleva valutare come sarebbe andato lui lì sopra. Non lo sapeva nemmeno come mai fin da piccolo si era infilato in quella palestra e aveva iniziato a tirare pugni contro quel sacco. Ma questo poco importava, perchè alla fine quello che aveva sempre desiderato era materializzato lì, quella sera. Era seduto su quel panchetto minuscolo e poco importava di come ci era arrivato. Concentrazione. Non distingueva la folla già nel buio della sala, nè faceva caso alle urla o alle incitazioni. Pensava solo a sè, al suo ego enorme. Enorme come i suoi muscoli; erano un ammasso di carne in tensione dal primo all'ultimo: la folta schiera di addominali era come una corazza che lo avrebbe protetto, i polpacci erano pronti per entrare in trazione durante il balletto sul ring. Quello su cui però contava di più era il suo bicipite destro che avrebbe sparato colpi micidali come un panzer in guerra. Le goccie di sudore gli scendevano giù dalla testa per la tensione che era ormai giunta alle stelle. Ed era questo che nel cervello si ripeteva costantamente anche durante ogni allenamento: "la tensione è la scorza del puglie, perchè riesce a animarlo quando è morto e ad energizzarlo quando è vivo. E' lei che affronta il pericolo, ma non la far trasformare in paura, perchè un puglile con la paura è come uno senza le braccia". Respiro. La cosa che più di tutte gli era rimasta impressa dagli insegnamenti del suo manager era la raccomandazione di sentire la simbiosi perfetta tra la voglia di esplodere che risideva nel cervello e lo scatto istantaneo del braccio, come un flash durante una fotografia. E per far ciò si doveva aiutare con la sua respirazione, senza mai andare fuori giri come un macchian ben progettata. In effetti lui era una macchina, ma progettata per demolire. La concentrazione era all'apice e il respiro bello profondo; la sua testa, invece, stava quasi per implodere; sapeva che tra pochi minuti non avrebbe più sentito niente: niente più rumori, niente più scrupoli, niente più dolore, solo adrenalina e sapore del sangue. Sì, adrenalina e sapore del sangue . Si ripeteva che avrebbe sentito solo adrenalina e sapore del sangue. Fu l'ultima volta che si sussurò questo, quando l'alone attorno alla sua testa, che gli allenatori chiamano concentrazione, fu squarciato dal sacro gong.

domenica 27 gennaio 2008

Alluminio Anodizzato (4)

Nausea. Si sentiva mancare il fiato. Appena sopra il treno, non potè far a meno di venir stordito dal fetore di quell'umanità stipata come bestiame. Anche quella mattina era costretto ad affrontare il viaggio in piedi. Come se non bastasse una temperatura tropicale non faceva che accrescere il disagio. Odiava l'ora dei pendolari. Odiava quei treni unti e usurati. Impossibile muoversi. Non aveva scelta, doveva godersi la compagnia di quella cariatide dai capelli bianchi e radi che gli era di fronte. Samuele trovava repellente sopra misura quella donna anziana, che in altre circostanze avrebbe suscitato in lui compassione. S'infilò le cuffie del suo riproduttore Mp3 e chiuse gli occhi cercando di evadere. Così, in apnea giunse alla stazione centrale. La mandria scese dal treno, fiacca e intorpidita.
Freddo, freddo, di nuovo dannatamente freddo. In mezzo a quell'ordinato caos Samu stava già imprencando al pensiero di salire su quel fottuto autobus. Prima però fece sosta dal tabaccaio. - Un pacchetto di Camel Light. Grazie - Tutte le volte che ringraziava il negoziante gli capitava di riflettere sull'assurdità di quelle parole. Non che quel vizio maledetto fosse colpa del tabaccaio, tuttavia trovava paradossale rigraziare il venditore del veleno che l'avrebbe ucciso.
Di nuovo in attesa. Questa volta sulla banchina fuori dalla stazione, ma almeno poteva fumare. Erano ormai le nove, quando riconobbe Vincenzo. "Porca puttana! Anche questo ci mancava." pensò Samuele. Non aveva nessuna voglia di conversare quella mattina, tantomeno con lui - Anche tu in ritardo? - esordì goliardico il collega. - Ce la prendiamo con calma, eh... - Samu era fottuto, in trappola. Avrebbe voluto sparire, non si sentiva in grado di poter sostenere l'allegria di Vincenzo neanche per un minuto. Ma ormai non poteva che soccombere a quella mitragliatrice dall'accento calabrese. E così passò più di mezzora sforzandosi di essere il più compiacente possibile. Annuiva, sorrideva. Una fatica immane. Odiava quel tipo di persone la cui prerogativa principale sembrava riuscire a cesellare il nulla. Niente carattere, niente spirito, niente emozioni. Aria fritta. Parla, parla e non comunica nulla. La sua fortuna è che non riesce ad ascoltarsi, pensava Samuele. Finalmente le porte del Bus si aprirono proprio di fronte all'ingresso della facoltà. Era arrivato.