sabato 22 dicembre 2007

Alluminio Anodizzato (3)

Un colpo secco. Passarono sette minuti e un secondo colpo la zittì nuovamente. Altri sette minuti e la radiosveglia ricominciò a cantare per la terza volta. Diamine, si doveva alzare. La spense. Le 7.53. Quella orrenda melodia anni '80 lo avrebbe tormentato almeno fino all'ora di pranzo. Samuele si appiccicò addosso la prima roba che gli capitò tra le mani e scese. In cucina afferrò un cornetto. Lo stesso sapore del cartone, pensò. Non aveva fame, ma l'abitudine lo spingeva ad ingozzarsi frettolosamente prima di correre al treno. Il caffè era tiepido, sicuramente il padre se n'era andato da poco. Aveva lasciato un biglietto: "Non torno per cena, dormo fuori. Chiama solo se necessario". Rimarrà a scopare dalla Teresa, pensò con un misto di rabbia e intolleranza. Infondo il ragazzo non aveva superato del tutto la fuga della madre. Sebbene non nascondesse il disprezzo che provava per lei, nel profondo del suo cuore dava il grosso della colpa al padre. Vivere con Franco non era facile, o meglio lo era fin troppo: era come stare da soli senza il problema delle bollette. Cappellino, sciarpa, guanti, chiavi, telefono, uscì. Alla stazione il solito ritardo. Dannato freddo. Un pallido lontanissimo sole cercava di scaldare inutilmente quell'aria pungente. Si mise a sedere in attesa del treno. Sebbene le panchine di ferro della stazione fossero marmate, il sonno aveva priorità. Quella mattina c'era il consueto "freddo fumo", era così che Samu amava definire il freddo che condensa il respirio. Una sigaretta, non desiderava altro che una sigaretta per fumarsi quei minuti d'attesa, ma sarebbe stato necessario attendere anche per quello. Certamente una volta a Firenze avrebbe puntato dritto verso il primo tabaccaio. Arrivò il treno e salì.

lunedì 17 dicembre 2007

Odore di malto bruciato, a increspare i pensieri

In piedi davanti al falò la sigaretta continuava a consumarsi lentamente. Il poco vento che alitava su Siviglia bastava a rubare al tabacco il suo soffio vitale, mischiandolo all'odore acre del malto bruciato che quella notte riempiva le strade della Tres mil. La nebbia, intorno al fuoco, si estendeva per chissà quanti isolati, ma lì in quel punto l'aria era nitida e Jasmina poteva vedere perfettamente la sigaretta, rivolta al cielo, che si suicidava. Era come se l'asfalto se la stesse fumando lentamente. La cenere intanto non cadeva. Il vento, quella notte, sopiva respirando con discrezione. Jasmina sbuffò. "Che gioco stupido!" disse rivolta all'altro lato del falò. "Io ci credo" rispose stizzito dall'altra parte del fuoco il suo interlocutore.

L'aveva conosciuto qualche ora prima, in strada. Si chiamava Jonathan ed aveva 13 anni. Era stato lui ad alzarla da terra e a portarla lontano dal marciapiedi del bar dopo che un gruppo di giovani sivigliani l'avevano malmenata. Era la sua ennesima lunga notte in una città che giorno dopo giorno le dava una nuova batosta. Non si era ancora ripresa dall'intontimento di due giorni prima, di quando si svegliò in riva al Guadalquivir con il naso inncrostato di sangue e i vestiti imbrattati di fango. Ma i guai non portano pazienza, soprattutto quando raggiungono una giovane slava nelle assolate strade notturne d'Europa. Zingara, lesbica e puttana. Era a Siviglia da due giorni e già aveva conquistato la sua, er nulla nuova, identità. Stavolta i guai erano venuti a cercarla alle 4 del mattino sul marciapiedi del Bar Trinidad, sulla Ronda historica della capitale. Chi conosce Siviglia dirà che se li era cercati. I ragazzi che l'avevano picchiata erano dei canis appena cresciuti e passati al mondo dei grandi, quello in cui per tirare il grammo non si può più rubare, sennò ti mettono dentro. I canis erano baby-gang che all'inizio del nuovo secolo imperversavano impunemente per tutta la città come cavallette pazze, in cerca di alcol, droga e divertimento sintetico. Il tutto gratis, pagando chi non riconoscesse la loro autorità con coltelli, bottiglie rotte e aggressioni collettive in stile piragna.
Quelli che avevano colpito Jasmina lo erano sicuramente stati fino a qualche mese prima. Ne avevano tutto l'aspetto. Avevano sotituito il motorino con un Audi e la cocaina se la procuravano lavorando. Erano cresciuti e sapevano che dopo i 18 si può andare in galera. Tuttavia ogni tanto di permettevano ancora qualche lusso. Una rissa, il lancio di qualche bicchiere, il coltello nascosto nello stivale, forse sapendo che l'avvocato del papà giudice al Juzgado de Sevilla o della mamma medico primario all'ospedale Virgen de la Macarena, li avrebbero tirati fuori dai guai. Ormai canis non erano più soltanto i ragazzacci del quartiere Est, la moda corre veloce in ogni campo. Questi tipacci forzuti e imbastiti di cocaina come civette imbalsamate avevano preso di mira un vagabondo di una settantina d'anni che ogni notte si inchiodava alla porta del bar, speranzoso nella bontà d'animo del barista che di tanto in tanto gli allungava una birra. L'avevano stuzzicato a lungo, poi, quando questi iniziava a mostrare paura, l'avevano spinto a terra, tra i tavolini e le sedie del bar, che a quell'ora era popolato di gentaglia di ogni specie chiamata all'adunata dal brontolio dello stomaco infastidito dall'alcol del venerdì notte. Poi gli avevano impedito di alzarsi, ricoprendolo di una gragnuola di colpi e tirandogli portatovaglioli, sedie e tutto quello che passava loro per le mani. I clienti del bar, intanto, erano accorsi fuori a godersi la scena. Jasmina fu l'unica a pararsi davanti a quei giovani per proteggere l'uomo, e così facendo si attirò le ire dei cinque bisonti. Lasciarono perdere l'uomo e vomitarono tutta la loro stupidità su Jamsina. Era quello che cercavano, in fondo. Un pretesto per picchiare qualcuno che sapesse difendersi. Jasmina era una ragazza di vent'anni, straniera e sola. Per questi valenti guerrieri urbani era più che sufficiente. La colpirono ripetutamente in cinque con calci e pugni, e quando accennò alla fuga la rincorsero senza sforzo con bicchieri, sedie e bottiglie rotte. Seppe difendersi, ma finì ugualmente male. La colpivano con la lingua rivoltata e gli occhi iniettati di sangue. Sudavano ignoranza. Lasciavano scorrere dalle loro mani la violenza come se la avessero tenuta nascosta per anni. Erano gorilla che avevano appena visto la morte della loro madre, lupi affamati che finalmente avevano trovato la carcassa di un cervo. A Jasmina ognni colpo distruggeva il cuore. Non capiva il perchè di tanta violenza, dette qualche calcio in aria, colpì con un pugno uno di loro, riuscì a uscire dalla cerchia di botte e attraversò la strada senza guardare. Un'ambulanza che veniva a forte velocità la vide all'ultimo momento e riuscì per poco a scansarla. Loro intanto stavano tornando. Erano tornati al bar furiosi, ma ridendo per il gran divertimento che le botte gli stavano procurando. Adrenalina, alcol, noia e cocaina. Erano pronti per qualsiasi cosa. Jasmina si era accasciata, senza forze, solo con la speranza di non vederli attraversare la strada. Li vide apparire con un tavolo sotto braccio, a modo di lancia, correre attraversando la strada. Urlavano eccitati e le loro risa si levavano verso le cime degli alberi che costeggiavano la strada. Poi una frenata e un colpo sordo. Un'auto se li era incontrati di fronte all'ultimo momento e non aveva fatto in tempo a fermarsi. Jasmina non aspettò di sapere cosa si fossero fatti. Approfittò del momento e della confusione che si era creata intorno all'automobile per filarsela. Qualcuno si era fatto molto male e lei, senza volerlo, c'era dentro. Corse come poteva fino a dove arrivò, poi si lasciò cadere e stremata, si addormentò. A svegliarla poco dopo fu un ragazzo gitano, che le diede un sorso d'acqua e la alzò da terra. "Vieni con me, qui non sei al sicuro" le disse. Era Jonathan, aveva visto la scena e l'aveva seguita per aiutarla. La prese sotto braccio e iniziarono a camminare. Jasmina non parlava. Camminava a stento e ogni respiro le graffiava i polmoni. Quartiere dopo quartiere arrivarono al loro sconosciuto destino. "Qui è dove vivo io" le disse il ragazzo, con un sospiro stanco "Mi dispiace ma non ho una casa dove farti riposare. Molti qui vivono come me, nel barrio. Senza tetto ma non senza casa. Qui non c'è bisogno di una casa, il barrio intero è la nostra casa. C'è sempre un posto dove accendere un fuoco e dormire, e la compagnia non manca mai. I sivigliani la chiamano la Tres mil vivienda, perchè per loro non è nient'altro che questo: un ghetto di tremila case dove rinchiudere i gitani come me, figli di quelli che cacciarono dalla parte visibile della città. In realtà si chiama Poligono Sur e per me è molto più di un agglomerato di abitazioni". Jonathan parlava a Jasmina come se la conoscesse da anni e intanto accatastava robaccia per accendere un falò: legna, cartoni, la ruota di un motorino, ogni cosa andava bene per riscaldare quella notte, umida come il fango che imbrattava l'asfalto.
Aveva 13 anni e viveva solo, nella Tres mil. Jonathan accese il fuoco e si sedettero a terra. Poco a poco Jasmina recuperò le forze. Jonathan le portò un panino al maiale e un bicchiere di whisky, pe recuperare le forze. Così, mentre si avvicinava il giorno, i lividi si addormentarono, regalando un po' di pace ai muscoli di Jasmina. Adesso erano soli, lei, Jonathan e il fuoco, immersi in un recinto di nebbia che sapeva di birra grezza. "Che puzza!" disse Jasmina. "E' la fabbrica di birra. Ogni volta che c'è nebbia ne approfittano per incrementare la produzione e liberare nell'aria più scarti di quelli che potrebbero normalmente". Era un odore acre, che si infilava sotto la lingua senza passare dal naso. Jamsina lo sentiva forte nella gola. Aveva recuperato completamente. Le rimanevano i forti dolori, ma per fortuna non aveva niente di rotto. Forse l'alcol che aveva bevuto durante tutta la notte aveva ammortizzato i colpi. Le venne voglia di fumare e chiese a Jonathan se avesse una sigaretta. Niente da fare, ma poteva procurarsela. Entrò nella nebbia e poco dopo tornò con due pacchetti di sigarette, una coperta per Jasmina e una bottiglia di birra. Iniziarono a chiacchierare ma presto si resero conto che niente di quello che stavano dicendo era interessante e allora Jonathan le propose un gioco. "Ti va di sfidare il demonio? Questo gioco si chiama 'Ammazza il Papa'. Me l'hanno insegnato dei ragazzi italiani che conobbi tre anni fa. Se accendi la sigaretta e la fumi senza lasciar cadere nemmeno un briciolo di cenere, il Papa morirà". A Jasmina parve un gioco stupido, ma l'atmosfera surreale di quel rifugio di fuoco in mezzo alla nebbia stava già evocando in lei il fascino della magia nera. Non poteva essere reale. Perchè non provare? Accesero una sigaretta ciascuno. Diedero un respiro profondo, poi aspirarono il fumo. A Jonathan la cenere cadde quasi subito. Jasmina invece resse e posò la sigaretta a terra, in piedi davanti al falò, e attese. "Perchè credi che mi abbiano aggredito così?" chiese al suo compagno di rifugio. "L'uomo è cattivo per natura. E la droga lo rende ancora più cattivo. Di qualsiasi droga si tratti, soprattutto se è di carta e ci puoi comprare quello che ti pare. Me lo diceva sempre mia nonna. Quei ragazzi non erano degli sbandati. Hai visto che macchina avevano? possono permettersi di fare quello che gli pare, tanto papà e mamma li tireranno sempre fuori. Per quelli come te e come me invece è tutta un'altra storia. Se cerchi di opporti a un'ingiustizia te ne fanno a te una ancora più grossa, che serva da esempio per tutti gli altri, che non venga loro in mente di imitarti". La cenere era arrivata al filtro, ma ancora non cadeva. Jasmina la fissava con lo sguardo perso. "Non potrò mai capire. Se questo è il mondo, che cosa mi ci hanno messo a fare?". Un soffio di vento, l'ennesima alitata di malto bruciato. La sigaretta si spense, intatta. La chiesa vicina suonò le campane, le finestre delle case si accesero. Jonathan alzò la testa e fissò Jasmina con gli occhi sbarrati. Giovanni Paolo II era morto.

mercoledì 12 dicembre 2007

Alluminio Anodizzato (2)

La ragazza era una biondina, forse ventanni, qualcosa meno, top nero, tette piccole, pancia piatta, culetto strizzato in attillatissimi jeans a vita bassa. La tipa disse - Cosa volete? - e loro - Due super medie. Grazie. - Salvo seguì avidamente l'ancheggiare della cameriera finchè questa non uscì dal suo campo visivo. Subito cominciò a fantasticare su come sarebbe stato poter vedere la fine di quel tatuaggio che ammiccava da dietro la cintura. Una risata complice unì i due amici. Com'era bello fantasticare sulle cameriere dei Pub. Conoscerle avrebbe rovinato il divertimento. Attribuirgli pensieri, sentimenti, idee avrebbe rovinato la magia che lega infermiera e paziente, cameriera e bevitore. Ormai le due medie erano a metà quando l'atmosfera si fece più distesa. Quasi due metri di paciosità, in un ragazzone di più di cento chili, barba incolta, fronte alta e testa rasata, questo era Salvo. Amava parlare delle donne, almeno quanto ne aveva paura. La conversazione, un misto di amenità volgari e acute riflessioni sull'animo umano, procedeva al solito dominata da Salvo, al quale bastava la semplice stanca attenzione dell'amico. Quante volte Samuele aveva già sentito quella montagnona lamentarsi per i casini avuti con la sgualdrinella di turno. Eppure ascoltare quelle storie non era noiso. Un altro sorso, ormai si era scaldata quella fottuta birra. Stanco. Troppo stanco per poter rispondere, troppo stanco per poter pensare, troppo stanco per ricambiare le attenzioni che gli stava dedicando lo sguardo avido di quella frangetta alle spalle di Salvo. - Che ne pensi se ci leviamo di culo? - disse interrompendo l'amico - Andiamo vai che domani ho lezione. - Salvo era ormai settimane che non andava all'università e non ci sarebbe andato nemmeno l'indomani. Il cinghialone si era trovato un lavoro come tecnico delle luci per una ditta che organizzava concerti, ed era sempre più convinto che quello fosse il suo posto nel mondo, perciò tutto il resto a puttane. Pagarono il conto e uscirono. I due si salutarono ripromettedosi di andare a far macello in centro quel fine settimana. Samuele sfilò l'ultima sigaretta dal pacchetto e la fumò durante il ritorno. Imprecava già al pensiero che l'indomani, dopo il caffè, non si sarebbe stroncato il consueto cicchino mattutino.

Alluminio Anodizzato (1)

Alla fumosa luce di quella lampadina ecologica spense con stizza l'ennesima sigaretta. Gli occhi gonfi e rossi, le tempie pulsanti. Ormai era perso il conto delle ore che aveva trascorso davanti a quel monitor. In uno stato di ipnosi apparente alternava lavoro e svago, rimanendo sempre lì seduto. Ore di silenzio e musica assordante. Fuori era buio da un pezzo, ma notte o giorno non faceva differenza, il suo sole erano quegli 11W, la sua notte era quell'interruttore. Improvvisamente sul cellulare al suo fianco cominciò a lampeggiare "Salvo", "Salvo", "Salvo". Che diamine voleva? Una rapida occhiata all'orologio nell'angolo destro dello schermo: mezzanotte passata. Il cellulare indispettito cominciò a vibrare insistentemente, arrancava verso il suo braccio. Tolse le cuffie, rispose. - Un birra? Dovrei finire... Va bene dai! Solito posto? Ci troviamo là. Ciao Sa. - Con le movenze di un pianista, rapidamente premette la combinazione di tasti che lo riportò alla realtà. Il posacenere pieno, una tazza di caffè ormai freddo, appunti, stampe, un tagliaunghie, i resti di una banana: domani avrebbe messo in ordine la scrivania, domani. Scese le scale, prese la giacca, distrattamente agguantò le chiavi, chiuse la porta. Era qualche giorno che non vedeva Salvo. Si divertiva a tirare il collo a quel rottame di macchina. Parcheggiò. Scese. Era ancora rintontito, impiegava sempre un po' prima di ricollegarsi completamente al mondo. Il suo cervello era sempre là. A breve una birra forte l'avrebbe anestetizzato e le chiacchiere di Salvo l'avrebbero distratto. Lo trovò là al tavolo, avvolto nella nebbia della saletta fumatori. Si sedette. Immediatamente giunse la cameriera.

sabato 8 dicembre 2007

Italian gigolò

Pioveva. Ma non era la solita pioggerella fine e fitta in stile britannico, era piuttosto una gigante scrosciata d'acqua che si era abbattuta per tutta la città di Londra per più di otto ore consecutive. Erano le otto e mezza di sera quando lei entrò nel ristorante in attesa di lui: i camerieri la invitarono a sederi. Lui, Gabriel, era come sempre in ritardo imbottigliato nel forte traffico a causa della pioggia. Gabriel ero un melting pot di etnie: mamma Venezuelana sposata con padre Italiano, anche se i suoi nonni di parte materna erano originari del Brasile. Vita vissuato in America, nel paese delle opportunità, ogni tanto si faceva qualche vacanza a lungo termine nel Sud dell'Italia. Lui comunque, per la sua bellezza virile, nonstante tutto si sentiva di nazionalità Italiana e aveva acquisito anche un po' di accento del meridione. Non era un persona molto colta, ma ovviamente masticava varie lingue; non per cultura...piuttosto per semplice bisogno. Aveva fatto tutti i mestieri più disparati senza mai applicarsi e adesso, dopo essere arrivato a Londra da non più di tre mesi in cerca di uno slancio vitale, pensava di aver trovato lo scopo della sua vita, di aver fatto centro.

Arrivò finalmente al ristorante di Tito in Picadilly Circus, uno dei più in della zona. In tasca non aveva molti soldi e sfortuntamente si era dimenticato la carta di credito nel suo appartamento, ma non se ne preoccupò; sapeva che avrebbe sistemato tutto lei. Guardò l'orologio. Segnava le 8.50 ed era in ritardo di una ventina di minuti, per questo motivo forse era molto in ansia, mentre la pioggia si infrangeva sul suo impermeabile e lenta scivolava via. Non appena entrò però nel ristorante, dopo essersi fatto indicare il tavolo dal camerire, anche la sua ansia scivolò via e tutto nella sua mente gli apparve più chiaro, più lineare. Il motivo per qui lui era lì non lo sconvolgeva più di tanto come i pensieri che lo avevano assalito in taxi. Fu un cambiamento repentino quanto inspiegabile, come si suol dire un fulimne a ciel sereno, che, plasmò la sua ansia in voglia di giocare, di mettersi alla prova..
Si sedette al tavolo e per niente intimidito si presentò. Lei fu molto entusiasta della sua conoscenza e della sua scelta. I due si conobbero meglio con frasi di circostanza, ognuno raccontando un po' la propria storia di vita; l'uno si divertiva, l'altra invece si arrossiva spesso. Fu così che dopo aver rotto il ghiaccio inizirano subito ad ordinare, sbirciando nel menu. Lei gli consigliò un menu molto particolare e gli disse che glielo avrebbe offerto volentieri: ostriche crude e champagne come aperitivo, linguine all'astiche speziate con bacche indiane e infine cernia al cartoccio affogata in frutti di mare e gamberi. Gabriel non era una buona forchetta per quanto riguarda il pesce, ma nemmeno uno che si poteva fare molti problemi. Così per non sembrare scortese, accettò molto volentieri.
La cena si protrasse per molto in là fino quasi a chiusura; i due stavano ancora ridendo nell'atmosfera soffusa del locale, dove erano rimaste poche persone. Gabriel stava facendo ridere di gusto e divertire la sua lei, raccontandole le sue "esperienze" da adolescente in Venezuela, nella terra materna. E' inutile dire che tutti questi pettegolezzi che stuzzicavano la mente di lei erano rinfocolati da un paio di bottiglie di vino bianco, che i due avevano sorseggiato, lentamente, per tutta la serata.
Alla fine lei abbastanza insistentemente decise che era venuto il momento di "andare", perchè si era fatto tardi con la scusa che il giorno dopo avrebbe avuto una riunione di lavoro. Sistemò tutto lei: saldò il conto con la sua carta di credito, salutò il proprietario del risotrante, prese Gabriel per una mano e si diresse fuori, verso il primo taxi libero.

La pioggia aveva smesso di irrompere in maniera violenta e si era trasformata nella tipica pioggerellina Inglese. Gabriel una volta entrato nel taxi capì che era arrivato il momento...non appena lei finì di parlare con l'autista al fine di spiegare la strada verso la sua villetta, Gabriel, mentre la strinse forte a se, appoggiò dolcemente le proprie labbra carnose contro quelle di lei, che sogghignò piano piano in un sorriso di soddisfazione... intanto nella pioggia fitta fitta il taxi se ne andò dirigendosi verso Warwick Way.

mercoledì 5 dicembre 2007

Jasmina

"Largate de aquì, tortillera!".

Furono queste le prime e le uniche parole che Jasmina ricordava della notte prima. Il giorno prima, appena arrivata dalla Bosnia, aveva deciso non perder tempo a cercare un ostello, confidando nella sua buona stella e nella bellezza che le aveva sempre spianato la strada a Mostar. Così aveva fatto un giro per il centro, aveva conosciuto due studenti e se ne era andata di festa con loro. A fine serata, sbronzi e vogliosi di sesso, avrebbero fatto a gara per darle un letto e lei iniziava a pensare che forse li avrebbe potuti accontentare entrambi.
Stavolta però le andò male e adesso si trovava distesa nel mezzo del parco che si trova sulla riva del Guadalquivir, senza la sua borsa, bagnata e sporca fino al collo, di fango.
Cercò di ricordare.
Era stata con i due ragazzi in un bar a mangiare qualcosa e a farsi qualche birra. Era un posto tranquillo, non sarebbero rimasti lì a lungo. Infatti. Jasmina ricordava adesso di una piazza con molti alberi, molto lunga, isolata dal traffico. In quella piazza aveva conosciuto altra gente, ragazzi che venivano da diversi posti, le sembra. Ma già non ricordava quello che fecero in quella piazza. E quella frase? Si toccò il naso, aveva una crosta di sangue secco sotto le narici. Ora ricordava. Era successo in una discoteca. Lei si trovava lì con un gruppo grande di gente. C'erano anche i due studenti. Quando era entrata era già completamente sbronza. Non sapeva come fosse successo, ma si ricordava che un ragazzo a un certo punto le aveva detto quelle parole che le rintronavano nella testa, "Vattene di qui, lesbica!".
Certo, Jasmina tutto tranne che lesbica. Le piaceva il sesso, lo faceva ogni volta che ne aveva l'opportunità. Lo faceva per amore, per divertimento, per ottenere favori, per noia, per scherzo.
Lo aveva fatto con ragazzi, con uomini, con donne e con ragazze, e una volta lo fece anche con un vecchio, ma si divertì il giusto.
La sua attitudine le aveva spianato la strada da ragazzina. Si era fatta molti amici che in seguito l'avrebbero aiutata in più di un'occasione. Ma ormai il sesso era per lei una condanna. A Mostar sua reputazione era rovinata. Ormai, a 28 anni, la gente non la vedeva più come una graziosa libertina, ma come una puttana opportunista. Se ne andò per indignazione e così scelse di anteporre la sua felicità all'orgoglio di riscattare il suo onore agli occhi di famiglia e amici.
D'altra parte le persone che la conoscevano, seppur unendosi al coro unanime di condanne, sapevano che Jasmina non era quello che tutti credevano.
Era bellissima e amava il sesso, e queste erano le uniche sue colpe. Era forse la donna più forte che la Bosnia avesse cullato. Ma non intendeva rovinarsi la vita per rincorrere e smentire dicerie e pregiudizi. Che ci affogassero loro, quelli che l'avevano condannata ingiustamente. Invidiosi, avvelenati dalla vita e morti dentro il cuore.
Il suo modo di avvicinare le persone era molto sensuale e il suo corpo avrebbe fatto morire di voglia e di invidia ogni fidanzato delle ragazze a cui si avvicinava. I suoi movimenti scuotevano il suo corpo quando ballava e, senza volerlo, la avvicinavano al primo corpo femminile che trovavano. Per lei era un divertimento. Inoltre sapeva quali erano gli effetti che provocava con i suoi ancestrali balli saffici.
Forse la notte prima si era avvicinata troppo alla ragazza sbagliata e si era attirata le ire del suo lui. Doveva essere così. Questo spiegava il sangue sotto il naso, ma certo non bastava a spiegare la situazione in cui si trovava. Bah. L'avrebbe scoperto in seguito. Per il momento la prima cosa da fare era lavarsi e trovare un posto dove bersi un succo d'arancia per scacciare i postumi.

continua..

Thoma-tito

Fuoco alle polveri

Non so cosa potremo ricavare da questo strano esperimento, ma l'occasione mi pareva quella giusta.

In questo momento ci troviamo dispersi un po' ovunque. Stati Uniti, Olanda, Irlanda, Spagna, Italia. Ognuno sta facendo le sue esperienze, vicino casa o lontano chilometri, ma ognuno ha anche steso una lenza che lo tiene agganciato a casa, al resto di noi.
Mi piace tornare a casa dopo mesi passati lontano. Mi piace rivedere le vostre brutte faccie e sentire che ci stavamo aspettando a vicenda.

Spesso stiamo mesi senza parlare, ci sentiamo poco e male, perchè in fin dei conti sappiamo che non è necessario e perchè è comunque difficile raccontarsi come va. Difficile e spesso banale.

Per questo oggi vi propongo una cosa nuova. Proviamo a tenerci in contatto in modo un po' più originale..

Questo blog ospiterà un racconto
Non un racconto come gli altri. Qui non ci sarà autore, noi lo scriveremo, tutti insieme.
La storia deve nascere così, da un accumulo di frasi, personaggi e avventure, situazioni e riflessioni che ci colpiscano nella nostra quotidianità. Come alla fine di una notte sbronza, quando i fumi dell'alcol e quant'altro ti sdraiano a terra e inizi a farneticare, a 'montare' storie. Questa storia la monteremo noi. Inizio io. Dopo questo post di apertura scriverò la prima parte della storia.

Ogni post sarà un capitolo
Ognuno è libero in qualsiasi momento di prendere la storia e aggiungerle un capitolo inventando personaggi nuovi, spostandosi di scenario – la mia parte sarà ambientata a Siviglia-,abbandonando temporaneamente i personaggi già inseriti o facendoli interagire coni nuovi.

Senza regole
Insomma, non c’è limite. Può anche darsi che i primi personaggi scompaiano e che la fine della storia non c’entri niente con il suo inizio. Surrealismo, paranoia, realtà, fantasia, tutto è permesso. Sesso esplicito e introspezione, bestemmie e riflessione filosofica. Senza limiti né padroni. L'unica condizione è quella di metterci il cuore, di credere nel racconto e sentirlo nostro. Non prenderlo come una cazzata in stile scassaminchia, o meglio sì, però una cazzata fatta bene. Metteteci la vostra fantasia, chi ne sia a corto ci metta il cinismo, la freddezza, quello che vi pare, basta che sia vostro.

"Gipsie story"
Si chiama Gipsie story, una storia gitana, che viaggia da una città all'altra del mondo in cerca della sua maturazione. Questo è quello che mi è venuto in mente, ma naturalmente anche il titolo è soggetto a variazioni secondo il gusto del momento. Così come l'aspetto e le impostazioni del blog, che ognuno lo cambi in qualsiasi momento per adattarlo alla forma che più gli piace. E quando tocchi al successivo, che lo ricambi di nuovo se gli va.

Dubbi
Per praticità è bene che ognuno scriva in un post nuovo la sua parte di storia, così da avere una storia lineare, divisa in capitoli, ognuno con un autore diverso. Inoltre per ogni dubbio, consiglio o proposta da fare agli altri, evitiamo di usare il blog, scriviamoci una mail con il cc, oppure usiamo i commenti, in modo da poter essere tutti al corrente senza spezzare la storia con un post che non sia un capitolo.

Accesso
Nella mail che vi ho mandato ci sono nome utente e password per accedere al blog. Utilizzandoli tutti ognuno avrà accesso al blog con gli stessi diritti e funzioni degli altri, in modo da poter cambiare qualsiasi cosa in qualsiasi momento.

Domani apparirà il mio primo post con il capitolo iniziale della storia.

Una volta tanto, divertiamoci a scrivere.

L’invito è rivolto a tutti. Se ci mettiamo un minimo di cuore, avremo creato, in piccolo, la vita.

Thoma-tito